The Spanish Earth

Terra di Spagna

REGIA
Joris Ivens

CON
Voce narrante di Ernest Hemingway

ANNO
1937

NAZIONALITÀ
Spagna / USA

DURATA
52 min.

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The Spanish Earth

Terra di Spagna

“La terra di Spagna" è secca e dura. E i volti degli uomini che lavorano questa
terra sono duri e secchi per il sole”. Così inizia il documentario più celebre sulla Guerra Civile di Spagna. La narrazione è scandita dai testimoni diretti dei fatti (lo stesso regista olandese, ma anche Manuel Azana, Presidente della Repubblica Spagnola durante la guerra e Dolores Ibàrruri, detta la Passionaria, Segretaria Generale del Partito Comunista Spagnolo). Immagini potenti come quelle dei contadini di
Fuenteduena, che irrigano e coltivano i terreni espropriati ai latifondisti dal governo repubblicano. Le scene di vita contadina si alternano a quelle dei combattimenti a poche decine di chilometri di distanza...

Clásicos //

Guerra Civil Española

Qual è la tua proposta? Costruire la Città dei Giusti? Lo farò,
Sono d’accordo. O è il patto suicida, la romantica Morte?
Molto bene, accetto, perché
Io sono la tua scelta, la tua decisione: sì, io sono la Spagna.
(W.H. Auden, “Spagna 1937”)

Nell’autunno del 1937 uscì nelle sale cinematografiche americane il film documentario sulla Guerra civile spagnola The Spanish Earth, diretto da Joris Ivens (“l’olandese volante”), con la collaborazione di John Ferno, Ernest Hemingway, John Dos
Passos (nonché di Orson Welles e di Jean Renoir, voci narranti rispettivamente
della prima edizione in lingua inglese e di quella in lingua francese).1
Si trattava di una collaborazione artistica non neutrale, poiché si riproponeva di incidere
sulla politica di non intervento di Roosevelt e che, in questo, fallì clamorosamente. L’uscita del documentario fu, di fatto, limitata e boicottata e, come è noto, gli
Stati Uniti non presero mai ufficialmente posizione, né intervennero in Spagna a
favore dell’una o dell’altra fazione, a differenza di quanto fecero, invece, gli autori
coinvolti nel progetto diretto da Ivens, seppure con sfumature diverse. Autori che,
nella prima metà di quello stesso anno, si recarono in Spagna per documentare
quanto stava avvenendo e che finirono per schierarsi al fianco dei volontari che
confluirono nelle Brigate internazionali. Furono circa tremila quelli provenienti
dagli Stati Uniti d’America (e furono oltre quarantamila i volontari arrivati da
cinquanta nazioni) in risposta alla chiamata disperata del fronte repubblicano spagnolo in guerra dal 1936 contro le forze nazionaliste ribelli guidate dal generale
Francisco Franco.2
Tra questi, molti i cittadini comuni che ancora non erano riusciti
a trovare un posto di lavoro e una stabilità sociale nonostante le nuove politiche
rooseveltiane; insieme diedero vita a un esercito spontaneo, non autorizzato ad
indossare la divisa ufficiale della nazione, ma solo quella ideale di un’America
che credeva nella libertà e nella democrazia. Queste migliaia di “turisti armati”,
come vennero poi definiti da Winston Churchill, sfidarono la neutralità imposta
loro dalla nazione un po’ per spinta ideale e un po’ per disperazione: combattere
il fascismo (da comunisti, da anarchici o, semplicemente, da americani) e cercare un riscatto personale capace di dare senso e prospettiva a un futuro migliore.
Molti quelli che, infatti, partirono dagli Stati Uniti con l’intenzione di non tornare
indietro e di rifarsi una vita in Spagna; quelli che in Spagna rimasero poi per davvero furono, invece, soprattutto coloro che morirono in battaglia. Chi tornò negli
Stati Uniti non ebbe vita facile: bollati come “antifascisti prematuri”, i reduci dal
fronte spagnolo vennero schedati e marchiati a vita, privati della possibilità di fare
carriera nell’esercito americano di lì a poco impegnato nella Seconda guerra mon-
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diale (furono molti coloro che, tornati dalla Spagna, partirono volontari anche per
questa guerra), perseguitati come comunisti tout court e considerati inaffidabili o
addirittura pericolosi nel secondo dopoguerra e per tutto il periodo della Guerra
fredda.3
Come già i volontari americani partiti per il fronte, anche gli intellettuali del
gruppo di Ivens si recarono in Spagna con la convinzione di mettere le armi a loro
più consone, le parole e le immagini, al servizio di una causa avvertita come giusta
poiché contrapposta a ciò che veniva definito, invece, come male assoluto: il fascismo, ovvero il sovvertimento dell’ordine democratico, della libertà di opinione
e di espressione. Una volta arrivati in Spagna, si resero però conto che in quella
guerra non v’era, in realtà, nulla di semplice. Scoprirono, infatti, che quella era una
guerra che si stava giocando su un fronte internazionale molto più complesso, in
seno al quale la neutralità della loro madrepatria non era affatto una scelta politicamente neutrale. Lo capirono molti degli intellettuali, degli artisti e degli scrittori
nordamericani che in Spagna andarono per mestiere o per motivazioni politiche
anche diverse, ma che finirono per prendere comunque posizione contro la neutralità del loro governo. Ancor di più lo capirono i volontari che riuscirono a tornare a
casa, quegli antifascisti prematuri che, negli anni a seguire, “vennero braccati nelle
prigioni e nei campi di concentramento, messi sulla lista nera, ostracizzati, spinti
alla povertà, al suicidio e all’oblio – spesso in nome di quei principi che avevano
cercato di difendere”.4
L’arco narrativo di Ivens si costruisce a partire da un’idea particolarmente cara
anche alle migliaia di lavoratori stagionali americani all’epoca in cerca di una vita
migliore: la costruzione di un sistema di irrigazione per mettere a frutto un terreno espropriato agli antichi latifondisti nel villaggio di Fuentidueña de Tajo, posto
nell’area madrilena. Nella pellicola di Ivens, il lavoro dei contadini impegnati in
una causa comune viene giustapposto a quello dei soldati che combattono a Madrid: il pane prodotto dai primi servirà a sfamare chi combatte e resiste a Madrid;
la difesa dei soldati nella capitale servirà a preservare le strade aperte alle comunicazioni e, anche, ai rifornimenti. L’acqua che irriga il campo sul finale del documentario testimonia il successo del lavoro collettivo e vuole dare speranza e sostegno a chi ancora sta combattendo per la libertà della nazione. Allo stesso modo,
nel lavoro di Ivens i volti dei contadini e dei soldati sono giustapposti a quelli delle
figure più note di quella resistenza, dalla Pasionaria Isidora Dolores Ibárruri Gómez (fu lei a coniare lo slogan “No Pasáran” per incitare la resistenza anti-franchista
durante la prima, famosa battaglia di Madrid nel 1936) al presidente della Repubblica, Manuel Azaña (morto in esilio in Francia, dopo la vittoria del Generalissimo).
Quale progetto artistico impegnato, questo film documentario ricorda così non
solo l’esperienza della resistenza spagnola, ma anche e soprattutto l’illusione che
sottese la realizzazione del suo stesso lavoro, The Spanish Earth, frutto di una collaborazione importante tra famosi corrispondenti dal fronte: l’illusione di quella
che fu, forse, un’occasione mancata per le democrazie occidentali del tempo, ovvero la possibilità di scongiurare (o almeno adoperarsi per scongiurare) una seconda,
terribile guerra mondiale partendo dalla difesa degli ideali di libertà della Spagna
repubblicana, primo su tutti l’antifascismo. E chissà, se fosse andata davvero così,
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forse oggi avremmo meno guerre da ricordare o da continuare, perché, come ha
ricordato Martha Gellhorn, la guerra, in fondo, non è che una “orribile ripetizione”
(e su questo torneremo).5

Fare film, non fare cinema
L’idea che la Seconda guerra mondiale si sarebbe potuta evitare attraverso una
diversa gestione della risposta internazionale alla Guerra civile spagnola è un po’
vera e un po’ (in realtà molto) ingenua, soprattutto oggi, allorché la distanza temporale e la ricerca storiografica hanno permesso di valutare come quella guerra
fosse, come si diceva, tutto tranne che semplice alla luce del primo scenario internazionale postbellico allora in divenire. Eppure, in quel momento storico, furono
moltissimi gli intellettuali che pensarono fosse, invece, possibile per davvero. Certamente convinto lo fu Ivens, a differenza di Hemingway che, ciononostante, collaborò e con entusiasmo al progetto cinematografico del regista olandese, di fatto
un progetto sostenuto da una cordata di intellettuali nordamericani. Nell’agosto
del 1938, Hemingway annuncerà addirittura la data di inizio di una nuova guerra:
“La guerra in Spagna si combatte ormai da due anni. In Cina c’è una guerra da un
anno. Ci si aspetta la guerra in Europa al più tardi entro l’estate prossima”.6
Come
ha ricordato Ivens, Hemingway:
pensava che la guerra in Spagna fosse una tra le tante, ma voleva scrivere qualcosa
anche su questa. Aveva forti legami personali ed emotivi con la Spagna, ma non
voleva attribuire a questa guerra delle implicazioni particolarmente profonde, e si
mostrava piuttosto scettico quando io definivo la Guerra civile spagnola come la
prima occasione di contrastare il fascismo in Europa, come la prima vera battaglia
contro il fascismo.7
Coerentemente, anche mentre collabora con Ivens, le corrispondenze dal fronte
spagnolo di Hemingway riflettono il suo essere disilluso rispetto alla reale possibilità di prevenire una guerra o alla possibilità che i cittadini, così come gli intellettuali e gli artisti, abbiano un qualsivoglia potere di intervenire, modificandole, sulle scelte dei loro governi. Scelte spesso camuffate dalla retorica ufficiale,
spesso solo parzialmente visibili, ma di fatto intuibili da chi sa rimanere lucido
e crede, invece, solo nei fatti o, meglio, nell’evidenza delle prove anche quando,
come Hemingway, pure non esita a schierarsi e ad abbracciare una causa precisa;
ovvero, anche quando non è neutrale. Come ha scritto Calvino, “L’aver sentito
la guerra come l’immagine più veritiera, come la realtà normale del mondo borghese nell’età imperialista, è stata l’intuizione fondamentale di Hemingway”,8
a
prescindere dalla contingenza specifica e dalla parte con la quale, di volta in volta,
inevitabilmente si è schierato. Già nel primo brevissimo capitolo di Addio alle armi,
Hemingway introduce questa sua poetica, che si perfeziona a partire dalla Prima
guerra mondiale, descrivendo lo stato di guerra come naturalmente inscritto nel
paesaggio vicino al fronte: il passaggio dei carri armati porta polvere che si depo-
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sita sulle foglie e sui tronchi degli alberi quasi come un grigiore autunnale; come
a continuare un dialogo tra natura e guerra, il fango delle strade ricopre i soldati e
i carri armati creando un’unica monocromia, mentre i bagliori dei combattimenti
notturni assomigliano ai fulmini di un temporale estivo e il colera, portato dall’acqua piovana, miete solo settemila vittime, un numero che diventa persino insignificante rispetto ai milioni di morti mietuti, negli stessi mesi, dalla guerra. Allo stesso
modo, dal fronte spagnolo Hemingway scrive corrispondenze in tempo reale in
cui descrive non solo e non tanto la guerra e le azioni di guerra, quanto piuttosto
la normalità della guerra, ormai sfondo quotidiano, realtà con la quale si convive
giorno per giorno:
Una donna delle pulizie, con gli occhi arrossati, sta pulendo il sangue dal pavimento
di marmo del corridoio. Il morto non eri tu, né nessuno di tua conoscenza e tutti
sono molto affamati la mattina dopo una notte fredda e in un giorno lungo, il giorno
che precede l’andare al fronte di Guadalajara. 9
Quel giorno, non abbiamo più sparato ai serpenti, ma ho visto tre trote nel torrente
che pesavano forse due chili; trote pesanti, sode, dai fianchi profondi che si rigiravano per prendere le cavallette che lanciavo loro, facendo vortici nell’acqua come se
avessi buttato in acqua una pietra del selciato. In questo momento è appena caduta
una granata su una casa che si trova più su dell’albergo da cui sto scrivendo a macchina. In strada, un ragazzino sta piangendo. Un miliziano lo ha preso in braccio e
lo sta confortando. Nessuno è rimasto ucciso nella nostra strada e la gente che aveva
iniziato a correre sta ora rallentando, sorride nervosamente. L’unico che non aveva
corso sta guardando tutti dall’alto in basso e la città in cui abitiamo ora si chiama
Madrid.10
Brani come quelli appena citati, frasi come “Questa mattina, quando siamo partiti
per il fronte, era una giornata di primavera bella e ingannevole”,11 la dicono lunga
sia sul modo di essere osservatore del nostro tempo di Hemingway (sempre per
Calvino, “Hemingway prefigura quello che sarà lo spirito del soldato americano in
Europa”, e quella da lui descritta è la “guerra in paesi lontani, vista con il distacco
dell’estraneo”),12 sulla sua disillusione, sia sul suo avere capito che, ormai, la guerra era entrata nel quotidiano, prima ci si abituava, meglio era. La vita non si ferma,
la gente di Spagna sta affrontando una guerra che non è più combattuta solo al
fronte, ma ormai è ovunque e di tutti perché non fa più distinzione tra soldati e
civili. La Guerra civile spagnola diventa così sempre più metafora della vita che
continua a scorrere anche laddove tutti sono coinvolti, in un modo o nell’altro, dalla realtà di un massacro incessante. Un massacro che il fotogiornalismo e i media
dell’epoca traducono, per la prima volta, in presa diretta rendendolo così sfondo
anche per tutti coloro che lo vedono e lo esperiscono da lontano.13
Come il fotogiornalismo, anche il nuovo cinema documentario diventa linguaggio importante ai fini della comunicazione di massa proprio nel periodo tra
le due guerre, con una rapida accelerazione sul finire degli anni Venti. John Grierson, Roberth Flaherty e lo stesso Joris Ivens sono registi che, mettendo a frutto
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l’innovazione tecnica che porta a perfezionare la qualità delle macchine da presa,
così come quella delle tecniche di registrazione e di post-produzione, introducono
una riflessione importante sul genere “film documentario” anche nel mondo occidentale, così come Lev Kulešov, Sergej Ėjzenštejn, Dziga Vertov e Vsevolod Illarionovič Pudovkin hanno fatto per quella che ancora oggi viene ricordata come la
grande scuola sovietica di cinema, documentario e montaggio. È Grierson che usa,
nel 1926, il termine “documentario” recensendo Moana (L’Ultimo Eden), il film sulle
isole Samoa dell’americano Robert J. Flaherty,14 e che darà vita alla scuola del movimento documentaristico britannico; ed è sempre Grierson che nel 1938 fonderà
il National Film Board of Canada, accettando l’invito del governo canadese che
vuole utilizzare questa forma espressiva come mezzo per promuovere, nel mondo,
la nazione (e che produrrà film di propaganda bellica durante la Seconda guerra mondiale).15 Fin dagli inizi, il cinema documentario si propone dunque come
genere ontologicamente ambiguo, strumento utile all’indagine antropologica di
campo, così come strumento importante per l’educazione delle masse e, anche, per
il loro indottrinamento: la grande illusione è, appunto, quella di poter rendere e
mostrare la realtà come davvero è, un po’ come i reportage fotografici o giornalistici
che, negli stessi anni, hanno la pretesa di immortalare la realtà o di raccontare i
fatti come sono davvero accaduti. Sarà proprio Ivens, nelle sue opere così come nei
suoi scritti, a negare esplicitamente quell’illusione, affermando che difficilmente
il documentarista potrà rimanere neutrale di fronte a un fatto di forte impatto
sociale o di fronte alla Storia; quello che può fare, invece, è rispettare lo spettatore
e il soggetto attraverso un racconto sincero ed onesto di ciò che vede a partire dal
proprio punto di vista, dai propri principi, che non deve mai nascondere. Questo Ivens lo capirà con estrema lucidità sul fronte spagnolo, quando si troverà a
raccontare qualcosa di diverso da ciò che aveva raccontato fino a quel momento:
una Guerra civile in cui la posta in gioco sembrava essere molto più alta del solo
futuro della nazione in cui si stava combattendo. Quell’esperienza e quella presa
di coscienza vengono condivise, nella pratica così come nella traduzione artistica,
con diversi scrittori nordamericani ed in particolare con Ernest Hemingway, che
prenderà il posto di Dos Passos nella scrittura del commento al documentario di
Ivens. Per il regista, così come per lo scrittore, la Guerra civile spagnola diventerà
anche una occasione triste ma cruciale per mettere a punto le rispettive poetiche
che, pur nelle differenze, si incontrano laddove i due si confrontano con la questione di come si debba intendere una resa veritiera, in letteratura così come nel cinema
documentario. E anche su questo ritorneremo.
Come ricorda lo stesso Ivens, la Guerra civile spagnola iniziò mentre lui si trovava a New York su invito della New Film Alliance per lavorare a un film didattico. Tra i fondatori della Filmliga di Amsterdam, uno dei primi cineclub al mondo,
a metà degli anni Trenta Ivens aveva ormai acquisito fama internazionale come
“cineasta dell’avanguardia formalista, ma anche soprattutto come regista di film
caratterizzati da un potente realismo di denuncia sociale e politica”,16 autore di
circa dieci opere accomunate da chiari interessi dominanti:
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Anzitutto il lavoro, poi il rapporto dell’uomo con la natura, infine la lotta degli uomini per la pace, per l’indipendenza, per il socialismo, cioè – in altre parole – la
lotta per lavorare in pace e superare i conflitti con la natura. C’è, nella sua tematica
dominante, una visione unitaria che si snoda attraverso situazioni storiche, geografiche e sociali diversissime, una filosofia naturale che investe il rapporto dell’uomo
con l’ambiente, con le condizioni materiali di esistenza, e la sua lotta per superare le
difficoltà, gli ostacoli, le contraddizioni”.17
Le esperienze maturate dal 1928 al 1934 erano servite a Ivens ad acquisire consapevolezza tecnica ed estetica, proprietà del mezzo e delle sue capacità espressive,
abbracciando senza esitazione il sonoro e schierandosi contro gli avversari che in
esso vedevano lo strumento che avrebbe ucciso “l’arte dell’immagine”. Per Ivens,
tanto il cinema documentario che quello di finzione non devono tradursi in mere
esperienze contemplative; al contrario, devono portare lo spettatore a capire meglio la realtà in cui ci si trova a vivere. Come ebbe a dire: “Avendo cominciato con
la sperimentazione formale ed estetica dell’avanguardia, il mio problema è sempre
stato che cosa dire, dopo avere imparato a dire”.18 Già nel manifesto della Filmliga,
scritto dieci anni prima di quel 1937 che avrebbe segnato per sempre la sua produzione, Ivens e gli altri documentaristi avevano scritto:
QUI SI GIOCA IL FUTURO DEL FILM
Una volta su cento vediamo un film, altrimenti vediamo solo del cinema.
Tutta merce di massa, cliché commerciali, America, kitsch.
In questa arena, film e cinema sono nemici naturali.
Noi crediamo al film puro, autonomo. Il futuro del film come forma d’arte è funesto,
se noi non lo prendiamo a cuore.19
Coerentemente, i rari film di finzione di Ivens non sono cinema: anche laddove
viene raccontata una storia d’amore, lo sguardo è ben lontano dal cliché di massa,
così come dal lieto fine. È il caso, ad esempio, di Branding (film muto del 1929, che
in realtà Ivens definisce per metà finzione e per metà documentario) laddove si
racconta dell’amore infelice tra un marinaio disoccupato ed una ragazza che finirà
col lasciarlo per un usuraio: la materialità della vita ha la meglio sul sentimento,
l’ideale romantico non ha nulla a che fare con il Novecento di Ivens, proprio come
non ha nulla a che fare con quello di Hemingway. E nemmeno con quello di Dos
Passos, autore che ebbe un ruolo importante nella prima fase di riscrittura del copione di The Spanish Earth.
Fu Archibald MacLeish a suggerisce di mandare Ivens in Spagna per girare un
documentario: all’epoca, i cinegiornali che arrivavano dal fronte di guerra erano
quasi tutti girati dalla parte franchista e, dunque, propagandavano una visione
parziale favorevole al generale fascista. Ivens accettò prontamente di partire, nonostante gli scarsi finanziamenti, stimolato dall’idea che il pubblico americano
non dovesse più dipendere dal materiale di repertorio girato dai nazionalisti. In
breve tempo mise insieme una fidata squadra di cineasti e, nonostante gli scarsi
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finanziamenti, partì immediatamente per il fronte perché “La guerra non poteva
aspettare.”20 Tra le prime persone che coinvolse al di fuori degli Stati Uniti, vi fu
John Ferno, anch’egli olandese e già suo collaboratore:
Mandai a John Ferno un lungo telegramma, in cui lo informavo che alcuni noti scrittori di New York avevano fondato una società chiamata Contemporary Historians,
per produrre un film sulla Guerra civile spagnola; che nessuno dei collaboratori
percepiva un compenso; che tutti eravamo pronti a dedicare alla causa spagnola
il nostro lavoro; che molte persone non avevano nulla a che fare con il settore dei
documentari, ma che erano disposte a offrire del denaro per questo film; che noi
potevamo mettere a disposizione perlomeno la nostra forza-lavoro, visto che non
avevamo il becco di un quattrino; che c’era un certo rischio di venire feriti o di rimetterci la pelle, ma che io sarei stato felicissimo se avesse voluto venire con me. La
risposta di Johnny fu “Sì”.21
Per stile e per vigore, questo passaggio di Ivens ricorda la prosa nitida e decisa di
Hemingway, proprio come la sua scelta di partire e andare a vedere di persona
quello che stava accadendo, per raccontarlo a modo proprio e certamente senza
sentimentalismo. Racconta poi di essersi preparato al viaggio portando con sé un
unico abbozzo di copione scritto da uno degli autori newyorkesi, di cui non fa il
nome: quella prima trama iniziava con la deposizione di re Alfonso XIII (1931)
per raccontare il divenire della Spagna repubblicana fino alla ribellione fascista
del 1936, a partire dalla piccola realtà di un paesino rurale e dalla storia personale
di un giovane che da contadino prende coscienza della riforma agraria e diventa
antifascista e miliziano. “Di questo tipo sono le sceneggiature di un documentario che si pensa di poter girare: ovviamente, solo immaginandole lontano dalla
nazione, dilaniata dalla guerra, in cui dovrebbe verificarsi quanto descritto nella
trama”.22 L’esperienza diretta e l’incontro con Dos Passos prima e, poi, con Hemingway porterà Ivens a capire che la gente di Spagna “era troppo coinvolta nella lotta contro i fascisti, per poter ricordare come andavano le cose in un tipico villaggio
prima della guerra. Ci vergognammo per non aver subito preso in considerazione
questo fatto”.23
Arrivando a Valencia, Ivens capirà così che, ferma restando l’intenzione di girare un documentario con il fine di suscitare interesse per quello che stava accadendo in Spagna e chiarire all’opinione pubblica americana i motivi della guerra, non
si poteva più fare affidamento su un abbozzo di copione anacronistico e distante
dalla realtà del momento. Sebbene segua una trama sempre uguale a se stessa,
sebbene nella società dell’immagine la resa iconica del massacro si traduca, come
vedremo, in una orribile ripetizione, la guerra in tempo reale è qualcosa che precede il copione del film, anche se, una volta realizzato, sarà di quello che, come dirà
Hemingway, tutti si ricorderanno. A differenza dell’autore di opere di mera propaganda che agisce aprioristicamente a tavolino, il documentarista si cala appieno
nella situazione e la esperisce. Girare un documentario in zona di guerra diventa
così, prima di tutto, un viaggio di iniziazione tanto estetica che etica, un percorso
di ascolto di se stessi che matura in una situazione estrema; la si può comprendere
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appieno solo se si affinano i sensi e se si impara a percepire quello spazio e gli individui che lo abitano in modo diverso:
Andare al fronte era sempre qualcosa di speciale. In macchina ‘alle sei del mattino’
sulla strada di montagna sassosa e polverosa, muovendo verso il luogo delle riprese, pesavo talvolta: ‘Come tornerò? E soprattutto, tornerò?’. Non era sentimentalismo, solo pensieri….Si ha molto tempo per riflettere. …Ma durante questo tragitto
al fronte i sensi si affinano, cresce la capacità di osservazione. Si registrano tutti i
dettagli lungo la strada; piccolezze che diventano importanti come una immagine
totale: una foglia rossa, una grande montagna, gialla per la siccità.
Le mie facoltà di percezione dei colori aumentarono grazie a questi viaggi al fronte.
Acquistai un nuovo tipo di percezione della natura. Un paesaggio dipinto non mi
ha mai dato uno stimolo particolare. Quando visitavo i musei in Olanda, andavo
sempre diritto verso i ritratti o i quadri che raffiguravano persone. […]
Ma qui accadde qualcosa, qualcosa che mi era mancato molto per tutta la vita, che si
rivelava improvvisamente forte e vivo: e la natura mi si apriva ogni giorno davanti,
nuova.
[…] mi trovavo maggiormente in uno stato di meditazione. Ciò affinava i sensi per il
lavoro pratico sulle linee di combattimento, aumentava il predominio del contegno
e del vigile spirito: il pericolo di essere ucciso o ferito si riduceva, e gli uomini al cui
fianco si lavorava si trovavano, grazie anche alla propria prudenza, in una situazione di minor pericolo.24
Quella che Ivens descrive, ancora con una prosa che ricorda quella di Hemingway,
è una esperienza anche estetica di vita al fronte; non si tratta però di una estetica
contemplativa fine a se stessa, bensì di un percorso di affinamento sensoriale e percettivo volto a cogliere appieno la dimensione di ciò che si sta vivendo, così come
del dove. Lo stato di meditazione non descrive qui una condizione sospesa dalla
realtà ma, al contrario, una condizione consapevolmente immersa in quella realtà
così estrema e, per Ivens, così nuova. Emerge dunque tutto l’anacronismo di una
trama scritta da lontano, solo immaginata e non esperita. Riscriverla diventerà per
Ivens non una scelta estetica, ma una esigenza etica e di onestà artistica: vuole fare
un film, non vuole fare cinema.
Sarà con Dos Passos che, infine, Ivens riuscirà a cogliere il filo rosso per un
nuovo copione che sentirà sincero. Insieme all’autore americano, che parlava lo
spagnolo e che fungeva anche da traduttore, Ivens intervistò “una gran quantità di
persone” portando avanti un intenso lavoro di campo al fine di cogliere le ragioni
profonde del conflitto:
Finalmente ci fu chiaro, e in modo drammatico, il rapporto tra il problema dell’alimentazione e la riforma agraria. Incominciammo a elaborare un lavoro che ponesse
ugualmente l’accento sulla difesa di Madrid e su quella dei paesi vicini, che dovevano essere assolutamente salvaguardati, perché rifornivano la capitale di generi
alimentari: patate, verdura, pomodori, olive. Il nostro primo set per le riprese fu
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relativo agli scontri che avvenivano intorno a Madrid. Nel frattempo compivamo
però altri sopralluoghi, per trovare una località ove si stesse costruendo un sistema
di irrigazione (un’idea della nostra trama newyorkese che volevamo mantenere), e
si coltivassero intensivamente i campi, per dare un contributo alla difesa di Madrid.
Gli uomini lavoravano insieme per un utile comune, nel presente così come nel futuro.25
Nella nuova trama resta il sistema di irrigazione, ma scompare il passato: si parte
dal presente della terra di Spagna, coltivata ora insieme “per un utile comune” e
non per pochi, per un’idea di uguaglianza che poggia su quella di un bene pubblico democraticamente condiviso. Nell’edizione finale, le prime sequenze del film
di Ivens, accompagnate dalla voce empatica di Hemingway, raccontano l’entusiasmo e l’orgoglio degli abitanti del villaggio di Fuentedueña, a circa quaranta
chilometri da Madrid, impegnati nella costruzione dell’impianto di irrigazione e
nella produzione di pane e di alimenti per il sostentamento della capitale. Prima di
girare, Ivens, Dos Passos, gli uomini e le donne della troupe devono spiegare agli
abitanti che non sono venuti “per trarre profitto dalle loro vicende belliche”26 ma
per raccontare al mondo la loro storia, conquistandone così la fiducia. L’esperienza
al villaggio è per Ivens tanto travolgente quanto quella al fronte; l’una e l’altra lo
cambiarono a tal punto da fargli sentire la necessità di lasciare, seppure per pochi
giorni la Spagna, per collocare quella sua esperienza soggettiva in una prospettiva
oggettiva e, anche, etica. A un mese dalle prime riprese, Ivens va così brevemente
in Francia alla ricerca di una distanza che, senza snaturare o rinnegare il vissuto,
potesse servire a valutarlo nella sincerità e nella onestà della resa.
Mi sentivo così coinvolto in questa guerra da scordare il fatto che ero venuto solo per
fare il mio lavoro, e che avrei dovuto lasciare la Spagna, a lavoro finito: che la guerra
fosse finita oppure no. Per la prima volta nella mia esistenza vidi la distruzione e la
morte, di cui avevo tanto letto. Questo spettacolo mutò i pensieri, il modo di agire,
tutta la vita. E questo era il motivo principale per cui andai a Parigi: volevo mettere
alla prova me stesso, mostrare le riprese ad altre persone perché mi potessero dire
se quelle immagini costituivano un vero film, oppure se io producevo soltanto cose
da cinegiornale.27
La parentesi parigina diventerà importante per fare capire ad Ivens di essere sulla
giusta strada, così come a fargli incontrare Hemingway che, messo al corrente del
progetto, offrì la sua collaborazione prendendo rapidamente il posto di Dos Passos,
che da lì a poco lascerà la produzione e la Spagna a seguito di un episodio che incise profondamente anche sulla sua visione politica.28 Forte dei pareri incoraggianti
ricevuti da altri cineasti e scrittori, Ivens tornò in Spagna “più calmo e sicuro” del
suo lavoro, seguito di lì a poco da un Hemingway che va, in prima battuta, per
fare il suo lavoro di disilluso reporter di guerra ma che, lavorando con Ivens alla
realizzazione di The Spanish Earth, finirà con l’adoperarsi per far sì che quell’opera
potesse essere vista da tanti americani. L’intenzione è quella di mostrare il film al
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presidente Roosevelt per ottenere da lui “un’aperta presa di posizione per quanto
riguardava il non-intervento e la legge sulla neutralità”.29 In effetti, quello stesso
anno il film venne proiettato in anteprima alla Casa Bianca, alla presenza del Presidente, della moglie, del figlio James e di Martha Gellhorn, che accompagnava
Hemingway e Ivens; quest’ultimo confesserà, però, che non trovarono il coraggio
di parlare apertamente al Presidente. Ciononostante, al termine della proiezione,
Roosevelt offrì loro un suggerimento interessante, soprattutto se si considera che,
di fatto, la politica americana, almeno nell’immediato, non mutò:
Perché non sottolineate maggiormente il fatto che gli spagnoli combattono non solo
per il diritto di avere un loro governo, ma anche per il diritto di coltivare quei grandi
apprezzamenti di terra che il vecchio sistema mantiene arbitrariamente improduttivi?30
È un commento che sembra cogliere ed accettare il fatto che la terra di Spagna fosse
l’elemento iconico attorno al quale ruotava la tragedia spagnola, vero e proprio
simbolo della nuova e fragile società democratica che lottava per la propria sopravvivenza contro il riemergere di un passato reazionario e iniquo. A ben pensarci, però, forse è proprio questa l’idea che più spaventava l’America liberal, anche
quella del New Deal: la redistribuzione delle terre, la riforma agraria e la proprietà
collettiva erano, infatti, fiori all’occhiello dell’internazionale socialista, non certo
della società capitalista (che, non a caso, viene spesso tradotta in termini di imperialismo).31
Il film fu poi proiettato anche a Los Angeles, nella speranza sia di poter raccogliere
fondi per mandare aiuti immediati al fronte repubblicano nella forma di ambulanze (inviate a pezzi e rimontate in Spagna per superare l’embargo), sia per cercare
distributori sul territorio nazionale: lo scopo dichiarato era quello di sollecitare
nell’opinione pubblica una reazione tale da influenzare le politiche governative
ed orientarle a favore del sostegno diretto al legittimo governo di Madrid. Non
accadde. Ad Hollywood come in seguito a New York, le proiezioni furono sempre
limitate agli “auditori attrezzati con il sonoro” e il film venne spesso rifiutato con
le ragioni più disparate: “Ora era troppo lungo, ora era troppo breve; solo le persone più oneste ci dissero chiaro e tondo che temevano complicazioni”.32
Negli Stati Uniti il film fu criticato sia per il contenuto (giudicato non obiettivo
e troppo schierato a favore della Repubblica), che per la forma: era visto come
uno strano ibrido tra il film d’arte e il film di propaganda e, dunque, era anche
formalmente molto lontano dalle esigenze del mercato dell’intrattenimento tipico
dei film di finzione Made in Hollywood. Nella sua autobiografia, Ivens elenca nel
dettaglio le recensioni, dimostrando così l’eterno iato esistente tra gli intellettuali
che, come lui, considerano il proprio mezzo espressivo come strumento al servizio
dell’esplorazione del presente e chi, invece, addomestica l’esplorazione a partire
da ciò che più piace al pubblico. È, di nuovo, l’antica querelle tra avanguardia
e manierismo, tra arte che disturba nel e per il suo dire in modo diverso e arte
che appaga e conforta. L’ibrido di Ivens è avanguardia nel senso più profondo
del termine: scardina le convenzioni di senso e di forma per fare esperire tanto il
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dramma vissuto che quello di chi lo sta testimoniando perché non si può rimanere
indifferenti di fronte alla Storia.
Si è detto del pensiero di Ivens circa la differenza tra “film” e “cinema”, quest’ultimo inteso soprattutto come “merce di massa, cliché commerciali, America, kitsch”.
Si è detto anche del suo essersi allontanato in modo consapevole e convinto dal
film inteso solo come forma d’arte. Coerentemente, The Spanish Earth si costruisce
proprio su una poetica originale e dà forma a una denuncia che è a un tempo soggettiva ed oggettiva, poiché realizzata da un regista che sa cosa dire e come dirlo.
Una poetica maturata nella peggiore delle guerre immaginabili, una guerra civile,
dove si contrapponevano due visioni del mondo estreme e dove era impossibile
rimanere neutrali. Di fronte ai problemi vitali, il regista, come lo scrittore, come
l’artista torna prima di tutto uomo e prende posizione:
Spesso mi fu chiesto perché non fossimo andati dall’altra parte per girare un film
obiettivo. La mia unica risposta fu che un documentarista dovrebbe assumere un
suo atteggiamento nei confronti di problemi essenziali come il fascismo e l’antifascismo: deve prendere una posizione precisa, se vuole che il suo lavoro abbia valore
drammatico, emotivo e artistico. E poi bisogna tener conto di un’altra cosa molto
semplice: quando si è in guerra da una parte e si passa dall’altra, o ci si becca una
fucilata, o si viene rinchiusi in un carcere militare; non si può stare da tutte e due le
parti, né come soldato, né come regista.”33
La Guerra civile spagnola non fece eccezioni anche se, come scrisse Hemingway
in una delle sue corrispondenze da Madrid, quella era “una strana specie di nuova
guerra dove impari solo quello a cui sei in grado di credere”.34 È, lo si è ricordato,
la prima guerra a essere vista pressoché in diretta, la prima guerra mediatizzata
quasi in tempo reale e quella che, proprio per questo, porterà gli scrittori, così
come i registi, a riflettere su come i concetti di realtà, di immaginazione e di testimonianza si complichino e rapidamente nel secolo delle ideologie e nella società
dell’immagine, nell’epoca della presa diretta e della postproduzione.

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