Samsara
Samsara
REGIA
Lois Patiño
SCENEGGIATURA
Garbiñe Ortega, Lois Patiño
FOTOGRAFIA
Mauro Herce, Jessica Sarah Rinland
MONTAGGIO
Lois Patiño
MUSICA
Xabier Erkizia
PRODUZIONE
Señor y Señora
CON
Amid Keomany, Simone Milavanh, Mariam Vuaa Mtego, Juwairiya Idrisa Uwesu
ANNO
2023
NAZIONALITÀ
Spagna
DURATA
113 min.
PREMI
- Berlinale 2023: Premio Speciale della Giuria Encounters
- Thessaloniki Film Festival 2023: Best Picture - Film Forward Competition
- International Cinephile Society Awards: ICS Award alla Miglior Fotografia (Mauro Herce, Jessica Sarah Rinland); Miglior Suono (Xabier Erkizia, Luca Rullo)
Condividi su...
Samsara
Samsara
Premio della Giuria in Encounters alla Berlinale 2023, Samsara è la nuova opera del regista galiziano Lois Patiño che affronta il tema della reincarnazione, in chiave di buddhismo tibetano, seguendo spiriti che viaggiano tra Laos e Tanzania. Il filmmaker usa sapientemente la pellicola 16mm per creare gli effetti cromatici tipici del suo cinema, i viraggi, i colori che sbavano, arrivando a un trip allucinatorio che visualizza la fase che intercorre tra il trapasso e la rinascita di una nuova vita.
Lois Patiño
Nato a Vigo, in Spagna, nel 1983, ha studiato psicologia presso l'Università Complutense di Madrid, per poi dedicarsi al cinema presso il Centro Universitario de Artes (TAI) della città e alla New York Film Academy. Ha completato la sua formazione cinematografica con un master in documentario creativo presso l'Università Pompeu Fabra di Barcellona. In collaborazione con altri artisti, ha sviluppato workshop di video arte e installazioni presso istituzioni come l'Università delle Arti di Berlino. Il suo secondo lungometraggio, "Lúa vermella" (Red Moon Tide), è stato presentato in anteprima al Forum della Berlinale 2020 ed è stato proiettato al MoMA e in oltre 50 festival.
La Nueva Ola //
Il suo nuovo film, soprattutto nel suo passaggio da una metà all’altra, ha qualcosa di ipnotico.
Lois Patiño: Con “Samsara” ho raddoppiato il mio impegno per il cinema che mi interessa, come esperienza meditativa e contemplativa. Nella sua parte centrale, il film diventa un’esperienza di meditazione collettiva: un’esperienza intima e introspettiva, con lo spettatore che chiude gli occhi per 15 minuti, ascoltando dei suoni. Questo può diventare qualcosa di potente in una sala piena di gente.
Dei suoi tre lungometraggi, forse quest’ultimo è quello in cui il sonoro è più importante.
In questa parte centrale, sei guidato dal suono, che articola l’esperienza della luce. E nelle parti del Laos e di Zanzibar volevamo qualcosa di spoglio, senza molti strati sonori. Poiché mescoliamo documentario e finzione volevamo che fosse un ascolto dei luoghi. Ecco perché Xabier Erkizia ha utilizzato microfoni che amplificavano quel suono e quell’esperienza di ascolto.
Perché ha deciso di girare in luoghi lontani dall’Europa come Laos e Tanzania?
Il progetto nasce, come tutti i miei film, da un’esplorazione formale del linguaggio cinematografico. Ho pensato alla possibilità di realizzare un film da guardare ad occhi chiusi. Mi sono imbattuto nel ‘Libro tibetano dei morti’ e ho visto che era un ottimo testo da collegare a questa esperienza cinematografica da guardare ad occhi chiusi. Da lì avevo bisogno di un paese di religione buddista per introdurre il libro, e dopo il passaggio volevo un luogo diverso in tutti i sensi: paesaggio, cultura, cornice religiosa, personalità, carattere delle persone… E per caso mi hanno invitato a tenere un laboratorio di videoarte in Tanzania, ho conosciuto Zanzibar e mi è sembrato il posto ottimale. Mi interessa molto il cinema etnografico e antropologico, con “Samsara” ho potuto farlo fuori dalla Galizia, un desiderio che ho sempre avuto.
Durante le riprese ci sono momenti di grande vicinanza, sia ai monaci del Laos che alle famiglie della Tanzania… Come ha gestito la comunicazione con loro?
Quello era l’handicap più grande: avvicinarsi e capire la realtà di paesi di cui non conosci completamente la lingua. Trattandosi di un film a basso budget, solo quattro persone sono venute dalla Spagna: il direttore della fotografia, l’ingegnere del suono, qualcuno della produzione e io. Il resto della troupe (assistenti a suono, camera e produzione) era locale e questo ci ha aiutato a ripassare i dialoghi con loro e a evitare intrusioni da parte nostra. Inoltre, ho dormito diverse notti nel tempio dei monaci per conoscere meglio le loro abitudini, e dei 300 novizi che vi abitano, alcuni parlano inglese: quelli sono stati scelti come attori.
Ha girato in tempi molto diversi?
È facile entrare a Zanzibar, ma non in Laos, un paese comunista a partito unico, quindi abbiamo dovuto scrivere diverse versioni della sceneggiatura fino a quando non è stata accettata e abbiamo potuto girare lì; un emissario del governo controllava sempre le riprese. E abbiamo girato entrambe le parti l’anno scorso: a marzo in Laos e a giugno a Zanzibar, due mesi in ogni paese, tra la pre-produzione e circa 15 giorni di riprese in ogni luogo.
Sullo schermo vediamo che alcuni monaci indossano mascherine e altri maneggiano cellulari…
Il film ha qualcosa di anacronistico, come se fosse girato in un’altra epoca, perché andiamo in luoghi con contesti culturali e comportamentali molto rigidi, che sono così da generazioni, ma i monaci hanno i telefoni cellulari quindi hanno una via di fuga dalla loro reclusione e di connessione con l’esterno. Ho anche voluto ritrarre modi di vita che non siamo abituati a vedere: i cinema sono dominati dall’Occidente e ritengo sia importante rispecchiare altre minoranze che non si vedono spesso, per mostrare che la vita può essere vissuta in molti modi diversi. Vediamo due paesi fuori dal tempo, ma “Samsara” è assolutamente contemporaneo.
Intervista: Cineuropa.org