Rara
Strana
REGIA
Pepa San Martín
CON
Julia Lübbert, Mariana Loyola, Agustina Muñoz, Emilia Ossandón, Daniel Muñoz
ANNO
2016
NAZIONALITÀ
Cile / Argentina
DURATA
90 min.
PREMI
Miglior Film sezione K+ Generation - 66° BERLINALE
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Rara
Strana
Un'adolescente ed una bambina sono alle prese con la crescita in una famiglia omosessuale e con i pregiudizi sociali che ne conseguono.
Sara è una ragazza di tredici anni figlia di genitori divorziati. La sua vita si divide tra la casa in cui vive con una sorella più piccola, sua madre e la sua compagna, e la casa di suo padre che divide con la sua nuova moglie. Sara trascorre le sue giornate nella normalità fino a quando l'adolescenza fa capolino e gli iniziali confronti con la sessualità cominciano a sollevare i primi quesiti.
Dopo una serie di avvenimenti il padre decide di intraprendere un'azione legale nei confronti dell'ex moglie per ottenere la custodia delle sue due bambine.
Latinoamericana //
Cile, Vina del Mar. Sara, tredici anni, vive con la sorella minore Catalina, con sua madre Paula e con Lia, la compagna della madre. La loro è una quotidianità serena e spensierata, fino a quando l’adolescenza di Sara non solleva in lei dei problemi. Il confronto con i compagni, l’ansia di farsi accettare dai ragazzi, la paura di venir giudicata, alimentano in Sara un’inquietudine crescente. Le cose si complicano quando il padre tenta, allora, di ottenere la custodia delle figlie.
L’inquietudine della protagonista è il motore del film, come racconta il primo lungo piano sequenza all’interno della scuola, ma viene pian piano messo in prospettiva dalla battaglia legale tra il padre e la madre: qualcosa di molto più grande della ragazzina, che la supera e la esclude, ma nasce sul terreno fertile del suo smarrimento. Pepa San Martìn e la sceneggiatrice Alicia Scherson sono partite da una storia vera per fare un film che della verità si cura da cima a fondo: della verità della finzione. Il clima nel quale si svolge e ci avvolge Rara, infatti, è familiare prima di tutto perché appartiene alla verità della famiglia come luogo di convivenza, di tensioni e di affetti, e dunque a tutte le famiglie, a tutti i figli in quanto figli e ai genitori in quanto genitori.
Nonostante il film opponga drasticamente il calore della casa materna di Sara alla fredda perfezione di quella del padre, con uno schematismo un po’ spinto (com’è, forse, per l’episodio del gattino), la figura dell’uomo non è mai ritoccata in negativo, la regista non disegna più ombre su di lui di quanto non faccia su altri (si potrebbe notare che, a suo modo, illumina tutti i personaggi, ammorbidendoli), ma, come la paura di Sara di essere diversa dagli altri la porta a sentirsi tale, la preoccupazione del padre per un evento senza peso ci porta verso un finale che non ci aspettiamo e che non vorremmo.
Tanto la virata drammatica quanto i momenti “coming of age” della prima parte sono condotti con mano delicata e ottimo senso del ciglio, oltre il quale la strada si farebbe scricchiolante, retorica, inutilmente urlata. C’è invece un bel silenzio su molte cose, piccole grandi ellissi che ben rispondono alla visione e alla comprensione di Sara, che non è lucida né totale, che vede accadere le cose rapidamente e altrettanto rapidamente sostituisce la preoccupazione per lo sguardo altrui su di sé con quella per la sorella, per la quale si fa, in piccolo, madre e compagna.
“Non mettermi in bocca parole che non ho detto”, dice Victor all’ex moglie Paula, nel corso di un confronto telefonico, e il film ne sposa la linea di condotta: se dice necessariamente la sua nel dibattito sulla tutela legislativa dei figli di coppie omosessuali – tutela che in Cile ancora non è contemplata- lo fa senza proporre frasi fatte, cinematograficamente parlando, ma presentando la questione quale è, delicata e amaramente aperta.