La inocencia
L'innocenza
REGIA
Lucia Alemany
SCENEGGIATURA
Laia Soler, Lucía Alemany
FOTOGRAFIA
Joan Bordera
MUSICA
Òscar Senén
PRODUZIONE
Turanga Films, Un Capricho de Producciones, Lagarto Films, Institut Valencià de Cultura, Movistar Plus+, RTVE, TV3
CON
Carmen Arrufat, Laia Marull, Sergi López, Joel Bosqued, Estelle Orient, Laura Fernández, Lidia Moreno, Sonia Almarcha, Josh Climent, Bogdan Florin Guilescu
ANNO
2019
NAZIONALITÀ
Spagna
DURATA
92 min.
PREMI:
- Premio del Pubblico Giovane San Sebastián Int. Film Festival 2020
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La inocencia
L'innocenza
Brillante esordio alla regia di Lucia Alemany che firma una commedia drammatica incentrata su Lis, un'adolescente che inizia a scoprire la propria sessualità e sogna di lasciare il paesino dove vive per studiare tecniche acrobatiche a Barcellona. In quel contesto è a tutti gli effetti un'eccentrica. Il film infatti è anche e soprattutto il ritratto di quella comunità di provincia, non sempre silenziosa, testimone di tutto ciò che accade nel circondario. In un tale microcosmo, l'eccezione rischia sempre la censura se non la condanna da parte dei benpensanti.
La Nueva Ola //
La regista Lucia Alemany risponde questa intervista per Cineuropa:
Cosa ha Carmen Arrufat, la giovanissima e sconosciuta attrice protagonista, perché la scegliesse?
L’ho selezionata per la verità che trasmette, e inoltre, non aveva mai fatto cinema prima, motivo per il quale non aveva la tecnica e poteva essere modellata. Ai casting dovevamo essere molto pratici perché il tempo volava: è venuta Carmen e ha superato cinque casting, che sono serviti anche come delle prove. Lei era il volto dell’innocenza e mi ricordava la protagonista di “La vita di Adele”. Non credo che abbiamo incontrato nessuna migliore per la parte, per il modo in cui guardava tutto con la massima illusione, forse con timidezza, senza giudicare niente ed essendo totalmente trasparente.
La trama di “La inocencia” contiene molti suoi elementi personali?
Sì, cominciai a scrivere una storia mia: sentivo che a 30 anni e senza una grande cultura cinematografica – sono infatti cresciuta nelle strade di un paese – per raccontare bene una storia, autentica e con realismo, dovevo averla vissuta. Ma una volta che ogni attore ha dato vita a ciascun personaggio, non l’ho sentita più così mia.
Il film coglie molto bene l’ambiente dei paesini, con le sue feste e le vicine di casa.
So perfettamente cosa significa vivere in un paese: nel mio caso, quando avevo 18 anni, il mio paese era una gabbia, la mia prigione e sono scappata il più lontano possibile. Sono stata molti anni contraria al mio paese fino a quando nel mio progetto finale alla ESCAC (Scuola di Cinema di Barcellona) c’era un professore che ci insegnò che per dirigere la cosa più importante è parlare di qualcosa che solo tu puoi raccontare… Allora ho capito che era il momento di tornare in paese e di fare pace con le mie origini: ho girato un cortometraggio lì, anche il film, ho vissuto lì e il mio paese mi ha salvata. Non abbiamo potuto girare in un altro luogo senza la collaborazione disinteressata dei vicini. Magari quel rancore era un po’ immaginato, però sì è dura vivere in un paese: dove parlano di te e non ti senti libera.
La protagonista soffre le critiche delle vicine per il suo modo di vestire…
Sì, per un tempo ho portato i rasta ed è stato come una bomba: camminavo per la strada e sentivo tutti i tipi di commenti senza filtri.
Nel film c’è anche la mancanza di comunicazione fra genitori e figli.
Voglio credere che ciò stia venendo meno. Nel film viene mostrata una famiglia patriarcale e maschilista, ma con la speranza che sia la fine di tutto questo. Forse sono un po’ ottimista ma voglio credere che ne stiamo uscendo.